Ilegalne Emocije
Una delle band comparse sulla compilation “Elektricna post-yu nebriga” di cui parlavo qualche post fa. Electro-punk nudo e crudo. Tipo gli Adult. Niente male.
Una delle band comparse sulla compilation “Elektricna post-yu nebriga” di cui parlavo qualche post fa. Electro-punk nudo e crudo. Tipo gli Adult. Niente male.
“Kako je propao rock’n’roll” (Come è morto il rock’n’roll), film del 1989 composto da tre mediametraggi a firma di tre registi diversi. I denominatori comuni sono la musica e le culture giovanili di quel periodo. Una risposta, forse non del tutto riuscita, al crescente fenomeno del turbo-folk che alle porte degli anni novanta stava diventando predominante nel mainstream. I tre eposodi contengono elementi tipici del teenager-movie, della commedia demenziale e del musical. Il collante tra i tre episodi è la comparsa di Koja, detto il “Dente verde“, leader del gruppo Disciplina Kicme, con i jingle da cinema underground accompagnati dai brani caratterizzati da un crossover che mischia punk, funk e rap.
Il primo episodio narra la storia di Koma, interpretato da Srdjan Todorivic, già membro di alcuni gruppi famosi negli anni ’80 come EKV. Il figlio ribelle di un magnante dell’industria discografica alla scoperta dei cantanti folk, un giorno decide di fare uno scherzo al padre per dimostrargli che può fare di meglio, insofferente alle continue critiche, in un campo che gli è completamente estraneo, cioè quello della musica folk. Alla base di tutto c’è una scommessa, nel caso la perda il padre, deve tuffarsi in una fontana e gridare a squarciagola che odia i “narodnjaci” cioè i cantanti folk che lui stesso produce. Una sorta di Rock and roll Swindle in salsa folk.
Il secondo è una storiella d’amore che nasce durante un party in maschera per la festa di Capo d’Anno. I protagonisti sono Darko, il solito belloccio dall’alone tenebroso travestito da vampiro e Barbara, biondina “acqua e sapone”, apparentemente timida e riservata. L’unica cosa interessante di questo episodio sono i poster e i dischi sparsi per la casa di Darko, che vive da solo con i genitori intenti a fare carriera in Svizzera. Infatti si vedono i vari cult d’orrore degli anni ottanta come “Ammazzavampiri”, “Alien”, “Scanners” ecc. o i poster dei Sex Pistols, Nick Cave&Bad Seeds, Iggy Pop.
Il terzo episodio ruota intorno ad un equivoco tra Djura e Eva, affiatata ma spesso litigiosa coppia che non di rado si prende a scazzotate. Lui cantante di un gruppo rock, lei sarta con aspirazione di lavorare nella moda. Vivono in un modesto appartemento perennemente in disordine. Un giorno dopo aver ricevuto una lettera anonima sotto la porta, Djura va su tutte le furie pensando ad un corteggiatore segreto. Scoppia così una guerra tra i due per chi fa ingelosire di più il proprio partner. Tuttavia si scopre, tra qualche gag demenziale e delle schitarrate dei “Tragaci” la band di Djura, che le lettere erano indirizzate a lui e non a lei, mentre il mittente era il gentile vicino di casa rivelatosi omosessuale. Con una macchinazione il vicino si offre di aiutare Djura per riallacciare i rapporti con la moglie per tentare un’approccio. Questo è l’episodio più divertente ma dal vago sapore omofobo.
“Kako je propao rock and roll” non è un gran film, anzi sembra quasi un mezzo fallimento, ma è rappresentativo di un anno all’insegna dell’indecisione per tutto ciò che concerne l’ex Yugoslavia – il 1989. Fatto evidentemente con pochi mezzi in mezzo ad una crisi galoppante, senza sapere bene dove volesse andare a parare, se non con qualche intento di rivendicare l’orgoglio di una generazione rockettara, costretta negli anni successivi alla nicchia. Le musiche sono scritte dai membri di tre note band jugoslave di cui ho già parlato: Elektricni Orgazam, Idoli e Disciplina Kicme. Il film vede la persenza di ottimi attori come Bata Zivojinovic, Anica Dobra, Dragan Bjelogrlic, Branko Djuric, ma l’interpretazione non è mai tanto brillante, se non a tratti. Malgrado tutto è un cult che suscita molte nostalgie tra i 30enni di oggi. Con il senno di poi è stato interessante vederlo. Il film si può trovare qui, mentre i sottotitoli qui.
E’ un film che ho visto molto tempo fa, di cui ricordavo le tematiche e alcune scene topiche, ma che ormai avevo quasi dimenticato. Qualche giorno fa l’ho rivisto apprezzando di nuovo il vecchio stile di Kusturica. Il film è ambientato all’epoca della rottura tra Tito e Stalin, tra il 1949 e 1951, un periodo in cui la neonata federazione socialista si forgia nel terrore e nella paranoia, presupposti che sembrano accompagnare la nascista di ogni stato. Chiunque fosse sospettato di stalinismo finiva nei campi di prigionia o di rieducazione, e se ti andava bene venivi emarginato, declassato, privato dei diritti. Contesti storici in cui i piccoli rancori e invidie contribuiscono ad alimentare il meccanismo con la delazione che usa come pretesto l’eresia politica per i spesso banali scopi personali.
E’ così che un funzionario di partito (interpretato da Miki Manojlovic), l’inguaribile donnaiolo ma tutto sommato fedele alla linea “titoista”, finisce nei guai per una battuta fatta sovvrapensiero. L’amante che lo accompagna nel viaggio di ritorno da una delle numerose trasferte in giro per la Bosnia, sposata con il suo cognato, un collaboratore dell’OZNA (il servizio segreto jugoslavo*) – un po’ per ingenuità, un po’ per gelosia dato che non si decide di lasciare la moglie per lei – racconta la battuta al proprio marito. Il peccato mortale di Meho, il protagonista, mentre legge Politika, il principale quotidiano della ex-Jugoslavia, è quello di aver detto “forse hanno esagerato un po'” di fronte alla vignetta in cui è rappresentato Karl Marx seduto nel proprio studio con il ritratto di Stalin dietro. Apriti cielo: due anni di lavori forzati in una miniera sperduta, divieto di qualsiasi contatto con gli amici e familiari. E’ così che inizia il “viaggio d’affari” di Meho. Una formula con cui si faceva capire che qualcuno è finito nel tritacarne di OZNA dato che era pericoloso fare qualsiasi cenno alla purga, figuriamoci esprimere un qualche giudizio.” OZNA sve dozna” (OZNA viene a sapere tutto) era un altro detto popolare di quegli anni. La moglie di Meho, malgrado intuisca la verità sui suoi tradimenti, non abbandona il marito ne perde la speranza; toglie la parola al fratello delatore e fa di tutto per cercare di instaurare un contatto.
Questa la trama del film, ma la cosa interessante è la voce narrante, quella del figlio di Meho, un bimbo di sei anni che attraverso uno sguardo innocente racconta gli eventi spesso tragici che sconquassano la vita di una famiglia in un epoca dura, post-bellica ma non priva di un certo ottimismo. La convinzione di essere dalla parte giusta, la vittoria sul nazi-fascismo, il progresso che nel bene e nel marte porta dei profondi mutamenti, ma anche le disillusioni con la nascita delle nuove classi privilegiate. Tuttavia quello che distingue questi primi film di Kusturica, basati spesso sui racconti del famoso scrittore bosniaco Abdulah Sidran, sono i personaggi secondari, le situazioni di un realismo struggente che aprono finestre sulle vite degli ultimi, dei perdenti e degli emarginati in un mondo di granitiche certezze.
Molte sono le scene che mi sono rimaste impresse: la battuta tagliente che la moglie di Meho fa al fratello responsabile di aver mandato ai lavori forzati il proprio marito, dicendogli che gli “ustascia” – i membri del NDH, il partito collaborazionista croato – almeno le lasciavano mandare qualche vivere nel carcere quando il marito fu arrestato durante la guerra, mentre loro no. Poi la storia d’amore infantile tra i due bambini, il figlio di Meho e la bambina prodigio del vecchio medico russo, a sua volta rifugiato politico, scappato dallo stalinismo per ritrovarselo di nuovo con altri nomi. Poi la scena del tentativo goffo di fare l’amore nella barracca del campo di prigionia dopo aver finalmente ottenuto il permesso per una visita, interrotto dalla presenza del figlio. Infine lo sguardo sulla condizione femminile che si ripete più volte durante il film: i tradimenti e il persistente maschilismo, i diversi gradi di emancipazione, zone grigie tra il tradizionalismo e la modernizzazione.
* Oltre ai molti crimini commessi dall’OZNA va riconosciuta però anche la cattura dei numerosi collaborazionisti, filo-nazisti e responsabili delle stragi ai danni delle popolazioni civili durante la Seconda guerra mondiale. Tra questi il più famoso era il generale Draza Mihajlovic, il capo del movimento monarchico e fascistoide serbo “cetnici”.
Metalac è la forma gergale in serbo-croato per dire “metallaro”, cioè colui che ascolta la musica heavy metal, ma prima dell’invenzione di questo genere musicale, cioè fino ai primi anni ottanta, metalac voleva dire metalmeccanico. Oggi questa confusione terminologica, come in diversi altri casi, suscita una certa ilarità, così ho trovato in giro per la rete la copertina di questo disco. Tra le tante manifestazioni lavoriste c’era anche quella dedicata ai “metallari”, in seguito alla quale uscì un disco che celebra questa categoria dei lavoratori e sulla copertina, tradotto letteralmente c’è scritto: “Il giorno dei metallari jugoslavi” – “L’inno dei metallari” “Il mio papà è un metallaro” – Zagabria 10 ottobre 1977. Considerando anche la grafica real-socialista, nell’insieme la cosa fa un certo effetto, soprattutto ai metallari, quelli che intendiamo oggi.
Riporto qui la traduzione di due articoli su uno spettacolo teatrale del regista bosniaco Dino Mustafic intitolato “Rodjen u YU” (Nato in YU), incentrato sull’identità culturale jugoslava, sulla sua sopravvivenza malgrado l’ostinato revisionismo di una certa parte politica e sulla necessità di scrutare nel passato senza nostalgia per capire quali sono le prospettive per il futuro dei paesi post-jugoslavi al di là dei muri eretti dalle destre nazionaliste.
Perché non possiamo ricordare Jugoslavia?
Jugoslavia si è disgregata come l’entità politica ma a livello culturale vive ancora. E’ una dimostrazione che l’uccisione dell’identità jugoslava era una perdita di tempo in realtà? Ecco cosa si è concluso durante un incontro tenutosi a Belgrado…
Il regista Zelimir Zilnik, l’attrice Mirjana Karanovic e gli scrittori Ante Tomic, Miljenko Jergovic i Muharem Bazdulj hanno discusso durante un incontro pubblico sul tema della “jugoslavità” al “Centro per la decontaminazione culturale” a Belgrado il 27 ottobre scorso.
L’occasione per questo incontro era lo spettacolo teatrale “Nati in YU” di Dino Mustafic, di recente tenutosi per la prima volta al Teatro drammaturgico jugoslavo. Il dettaglio dell’evento più citato dai media era quando fu intonato l’inno jugoslavo “Hej sloveni” al che uno degli spettatori si alzò in piedi seguito dal resto del pubblico per la sua durata. Una delle attrici dello spettacolo era Mirjana Karanovic ha dichiarato per Deutshe Welle: “Inizialmente ero molto scettica sull’idea di fare questo spettacolo, ma poi dalla foga per spiegare i miei motivi mi sono commossa. Ho chiamato il regista per dirgli che non volevo accettare la mia parte, ma ho capito che dovevo farlo per fare i conti una volta per tutte con il passato. Mi sono resa conto quanto non solo io, ma tutti quelli che hanno vissuto in quel paese, ne parlino così poco, mentre quel poco che si dice è parte di un ricordo sentimentale sui vecchi tempi. Dall’altra parte c’è una connotazione molto negativa sul significato della Jugoslavia come la prigione dei popoli. In questo contesto essere dei jugo-nostalgici è una brutta cosa, qualcosa di cui vergognarsi…Nel concetto della Jugoslavia si è infilato di tutto, dalla politica ai prodotti della cultura pop”.
Lo scrittore Ante Tomic ha detto che erano dei bei tempi, ma sono andati per sempre e ora bisogna pensare alle questioni più contemporane, più importanti. “Avevo molti dubbi su questo tema anche se almeno per me non erano di natura politica. Ho 40 anni e ho passato la metà della mia vita in quel paese, l’altra metà senza, cercando di viverlo in modo attuale. Mi sento come un emigrato, questo non è più il posto dove vivo e temo di diventare come tutti gli emigranti, noioso con le proprie storie sul passato, in questo caso sulla Jugoslavia. A parte questo, oggi viviamo delle nuove sfide, il mondo è diventato inquietante e penso che ci sono cose più pressanti. Quando parliamo di questo mondo inquietante in cui è assente la solidarietà, in cui i lavoratori si trattano come i cani, è comunque utile l’esperienza jugoslava perché il socialismo se non altro ci insegnava che la solidarietà e la comunanza sono dei valori. Infatti, quando penso all’indietro, credo che quei 50 anni dell’esistenza del paese erano dei tempi in qualche modo eroici. Oggi ci siamo “degradati”, perdiamo sia la solidarietà, sia i valori come quello della comunanza” ha detto Tomic.
Secondo Miljenko Jergovic, il fatto che si sospende il diritto di ricordare è terrificante. “Jugoslavia come entità politica è scomparsa. Ma quello che erano le basi della Jugoslavia, cioè lo spazio di un’identità culturale e le sue esperienze storiche continuano a vivere, continuano a funzionare. Nel senso culturale Jugoslavia non solo non si è mai disgregata, ma non può farlo. Che cosa è rimasto? E’ rimasto per ciascuno quello che anche prima gli apparteneva nel senso spirituale, morale e molto meno materiale” osserva Jergovic.
fonte: http://danas.net.hr/kultura/page/2010/10/29/0173006.html
[Segue l’intervista con Dino Mustafic]
Poslje Robne Kuce, koju sam vec pominjao na Balkan Rock-u, emisija u nekoliko epizoda koja je govorila o jugoslovenskom “novom talasu”, dosao je red na malo duzi skok u proslost, tragajuci za korijenima rock’n’rolla u bivsoj Yugi. Dakle radi se o jos jednoj emisiji RTS-a, ciji je reziser Dusan Vesic, sa intervjuima poznatih muzicara, producenata, novinara i likova koji su svijedoci tih davnih desavanja, pocevsi od sredine pedesetih godina proslog vijeka. Mozete skinuti epizode preko sajta jednog od najvrijednijih blogera iz Srbije – sa egzotericnim nazivom Abraxas365. Za sad sam pogledao samo par epizoda, i stvar je jako simpaticna i interesantna, te mozda i poucna za mladje generacije koje su rasle pod sijenkom bratoubilackog revizijonizma, ne zato sto emisija skrece paznju na te tematike, vec jednostavno zbog samog saznanja da je postojao neki zajednicki kulturni bunt tokom decenija koji i dan danas prezivljava kroz razne muzicke scene novokomponovanih nacija. Dok sam manje vise potkovan sto se tice rock-a od sedamdesetih na ovamo, falilo mi je dosta imena, mijesta i desavanja iz tog drevnijeg vremena kada je to jos bila “djavolja muzika”. Neki od protagonista govore o tome kako je rezim reagovao na nove mladalacke mode, u najbolju ruku sa sumjom u najgoru represivno, kao da se radilo o ekskluzivnom primitivizmu real-socijalistickih zemalja, zaboravljajuci sta je sve uradijo “makartizam” tih istih pedesetih godina u Sjedinjenim Drzavama. Doduse to je detalj relativne vaznosti, medju mnogim drugim anegdotama koje popracuju seriju. Daunloudujte to i uzivajte. Preporuceno mladjima, ne samo zbog edukacije, vec jer bi starije ovo moglo i ganuti 😉
Segnalo l’articolo uscito sulla rivista Loop, la migliore se non l’unica rivista di movimento in circolazione ultimamente. A cura di uno dei due autori del documentario “La resistenza nascosta“, tratta più o meno gli stessi argomenti legati all ascena underground bosniaca e al ruolo politico e controculturale che ha avuto dalla fine della guerra in poi.
(clicca sull’immagine per ingrandire l’articolo oppure scarica l’intero numero di Loop)
Un duo di DJ sloveni mixano abilmente le rarità beat e funkadeliche dei “sixtees” jugoslavi. Il mix in tre parti è intitolato “Le gioie della zia”. Così si presentano su Sound Cloud:
The Good Foot is a funk and rare groove night in club K4 (Ljubljana) organised by Code.EP Funk division, usually as a midweek (Wednesday) happening of danceable delights. The night is based on carefully picked funkadelic beats from all over the world – from classic bboy breaks, soul mod bangers and yugo beats to afrobeat, modern (deep) funk… It’s a loose musical concept (no, we’re not funk purists!), but it’s also a fact that most of the music played was made in the seventies. Get on the Good Foot!
Tetkine Radosti vol.3 – part 1 Borka by Good Foot
Danas dok srpski fasisti i turbo-nacionalisti, a za njima masa naroda koja nije ni svijesna u ime cije ideologije marsiraju Beogradom, sam pomislijo koliko je antifasizam jos aktuelan na post-jugoslovenskim prostorima. Naravno sav tav bijes i reakcija nisu samo rezultat homofobije i preporodjenog tradicionalizma: nezadovoljstvo, totalno razocarenje u politiku, ekonomska kriza i kompleks zvan “euro-skepticizam” cine to da se ogroman broj mladih okrece prema novim oblicima nedeklarisanog fasizma koji se predstavlja kao mjesavina populizma i anti-politike sa cesto kontradiktornim stavovima. Bez utijehe ali na svu srecu su se u zadnjih desetak godina pojavili i anti-fasisticki kolektivi sirom post-Jugoslavije koji su na neki nacin dio onoga sto ostaje od “no global” pokreta i uopste te nove generacije disidentsktva koje prevazilazi stare kategorija marxizma i anarhizma. S time rado objavljujem clanak uzet sa sajta novosadske anti-fasisticke akcije, ciji je autor aktivista iz Mostara koji analizira kontekst u kome se mnoze oblici desnicarskog radikalizma, pocevsi od situacije u Bosni i Hercegovini. Ako uspijem naci volje i vremena, ovo cu prevesti na italijanski.
ANTIFA BiH PRUŽA OTPOR SVIM FAŠISTIMA!
Posted Sun, 26/09/2010 – 02:15
Elektricna Post-Yu Nebriga – una compilation di gruppi electro serbi appena uscita, distribuita gratuitamente in rete, ma con una versione a pagamento che prevede alcuni brani in più e un art-work molto carino riconducibile ad un immaginario tipicamente electro-clash. I suoni sono quelli crudi dell’elettronica minimale, dell’indietronica, spesso pankeggiante e dagli echi che rimandano agli anni ’80, naturalmente non quelli scintillanti del synth-pop, ma quelli più lugubri e underground, rappresentati nella ex-Jugoslavia dagli sloveni Borghesia.
Era quasi scontato qualche omaggio al vecchio punk e “novi talas” jugoslavo con il remix di un pezzo di Elektricni Orgazam e con l’interpretazione, in questo caso “synth” dei Paraf. Alcuni gruppi presenti nella compilation li ho già citati su questo blog, come il duo “ebm” Margita je Mrtva e il progetto agit-prop Klopka za Pionira. Sembra che la scena elettrnica serba sia molto affezionata all’electro-industrial e ad una sorta di neo-espressionismo nell’attitudine, in parte l’eredità dei Laibach e del collettivo NSK.
Il tutto è sponsorizzato da una fantomatica “Associazione nazionale per Arte e Cultura“, che si presenta come una specie di detournement della reale “Associazione nazionale degli scrittori serbi” o di qualche altro ente simile che nei decenni precedenti ha avuto un’egemonia dei nazionalisti al proprio interno. Sembra si tratti di una qualche rete di associazioni che operano nell’ambito dell’arte, del teatro, della letteratura.
Il nome della compilation tradotto letteralmente significa “La non curanza elettrica post-yugoslava”. Dai nomi delle canzoni e da quello che sono riuscito a capire dai testi sembra ci sia un gioco ironico con gli elementi della cultura-pop ex-jugoslava, sopravvissuta all’ecatombe dello stato e delle istituzioni. Infatti in alcuni pezzi echeggiano i frammenti di dialoghi dei vecchi film, in altri il tema è più legato alla contemporaneaità schizzoide della Serbia e del suo underground. Bisogna dire che negli ultimi dieci anni si è creata una notevole scena elettronica tra Belgrado e Novi Sad e se qualcuno vuole farsi un’infarinatura sulla stessa può fare riferimento a Radio Elektrana.
Anche questa volta devo ringraziare il compaesano Dj Kilibarda per la segnalazione.