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Goli Otok

May 12th, 2008

Goli OtokGoli Otok (Isola Calva o nuda letteralmente) era un nome che incuteva terrore, un nome che veniva pronunciato a voce bassa – per spaventare o distogliere qualcuno dai pensieri “proibiti”. Un campo di prigionia da dove sono passati circa 30.000 appartenenti al Partito Comunista Jugoslavo dal 1949 al 1956 – ovvero dalla rottura con Stalin e le conseguenti minacce di invasione fino alla “distensione” sotto Kruscev. Un lagher simile ai gulag sovietici o ai campi di rieducazione cinesi. Il 10% dei detenuti è morto sull’isola, maggior parte uccisi per mano dei propri compagni. Nella sua struttura Goli Otok si distingueva dai gulag perchè funzionava sul principio di perpetuum mobile, ogni tipo di solidarietà tra i prigionieri era spezzata fin dall’ingresso, mentre la funzione del lagher era quella di formare spie, prima costringendoli a tradire i compagni e poi usandoli come informatori in cambio di una libertà vigilata. Il tutto ovviamente aveva come obiettivo quello di “far aprire gli occhi ai compagni che sbagliano” e aiutarli ad essere riportati sulla rette via. Non mi soffermerò sui dettagli abberranti, sul terrorismo psicologico, le torture, i  capò “ustascia”, eroi della resistenza torturati…Sembra che non ci sia neanche uno stato al mondo che non abbia avuto un campo di concentramento per i prigionieri politici nel corso del novecento, compreso il Bel Paese con i suoi carceri speciali (dove, seppure in proporzioni minori, non sono mancate torture, utilizzo di aguzzini mafiosi ed altri sistemi totalitari), occultati dalla storia ufficiale, e riportati alla luce solo in alcuni ambiti ben precisi. Quella che segue è la traduzione di uno dei scritti introduttivi al romanzo “Le Hawaii di Tito” di Rade Panic, ad opera dell’autore stesso, un medico jugoslavo reo di aver dubitato del modello socialista che si stava instaurando. Potete leggere gli articoli e la biografia sul suo sito “Tito’s Hawaii”.

Tradotto dal sito di Rade Panic*, medico e scrittore jugoslavo reduce del campo di concentramento per i prigionieri politici Goli Otok, su cui scrisse il libro intitolato Hawaii di Tito (Titovi Havaji).

Goli Otok è un’isola non abitata dalla superficie di circa cinque
chilometri quadrati che si trova nel Mar Adriatico vicino all’arcipelago
Kvarner. Il villaggio più vicino sulla costa è Lukovo a circa tre miglia
marittime. Malgrado le correnti forti, un buon nuotatore potrebbe attraverse quel pezzo di mare fino alla costa.
In alcuni casi di fughe, i prigionieri usavano le assi di legno, ma che io
sappia, nessuno è mai riuscito a fuggire, probabilmente perchè i contadini e i
pescatori vivevano nel terrore e non osavano aiutare i fuggiaschi stremati.
Nelle mappe nautiche la zona che circondava l’isola era severamente proibita.
Addentrandosi con la nave (probabilmente durante le esercitazioni .ndt), un
generale dell’esercito jugoslavo ha dovuto sorbirsi una lunga predica da parte
del capitano dell’UDBA. Ha dovuto ascoltare in silenzio e a testa china.
Molto spesso soffia una forte bora. Alcune erano così forti che i
prigionieri dovevano tenersi per mani mentre si spostavano sul campo di lavoro.
La bora e il terreno poverissimo hanno impedito la crescita della
vegetazione. Piantavamo pinetti e acacie, cercando di migliorare l’aspetto di Goli. Fino ad allora non è stato rilevato nulla che possa essere sfruttato economicamente. Sembrava fosse fatto apposta per un campo di concentramento. Secondo alcuni gli austro-ungarici deportavano i prigionieri in quel luogo, ma noi non vedevamo alcuna traccia dei lavori, a parte una voragine, che dopo i nostri lavori fu usata per la struttura 101, lagher dentro lagher, l’ultimo cerchio.

Il lagher fu aperto nel 1949 e l’ultimo stalinista fu rilasciato nel 1956. Quella data era la fine della gestione speciale dell’isola. Dopo era andata sotto controllo dell’autorità della repubblica Croazia che lo userà come carcere speciale per i nazionalisti. Quando me ne stavo andando dall’isola nel 1951, ho fatto il giuramento che non sarei mai più tornato. Come molti altri giuramenti, anche questo l’ho tradito nel 1990. Il romanzo fu già finito da un pezzo (Hawaii di Tito, Rade Panic,1997), ma io non ero del tutto soddisfatto. Volevo controllare alcune cose a tutti i costi, volevo sentire di nuovo il caldo di quei sassi, di toccare i pini che piantavamo. Così decisi di visitarlo nell’agosto del 1990. A quei tempi stavano cercando di farlo diventare un luogo turistsico. Gli adetti ai lavori sorridenti si scusavano per la situazione provvisoria, promettendo che l’anno prossimo sarà meglio. Mi ero aggregato ad un gruppo che aveva anche la guida, quest’ultimo un ex detenuto nazionalista. Racconta di com’era l’isola durante la sua prigionia. Crudele, spietata ma con una divisione chiara, polizia da un lato i detenuti dall’altro, senza infiltrazioni e capò. Chi c’era prima di voi sull’isola, chiesi. Le spie russe, mi disse, e fece un cenno evasivo con la mano.
Mi staccai dal gruppo e gironzolai nei dintorni, andando verso il campo da tennis sulla costa. Lì nel 1950 c’era un cipresso spaccato da un fulmine, spelacchiato ma molto profumato. Questo profumo mi faceva diventare triste tutte le volte che lo sentivo. In quel punto ogni mattina i prigionieroi dovevano bagnare e lavorare laterite, che assumeva un colore nutriente di cioccolato. In quel luogo ex calciatore Bozovic, prigionieri pure lui, dava le lezioni di tennis ai “caporali” del lagher. Mi ricordo Bozovic. Consumato, tornava in sè appena-pena grazie agli avanzi della loro mensa, prendeva con facilità i loro tiri e li restituiva morbidamente, presente in tutti gli angoli, senza sforzo e senza correre troppo. 1990 il cipresso non c’è più, mentre il campetto è scomparso come coperto dalla sabbia e detriti di pietra. L’isola torna ad essere quello che è. I pini che piantavamo, o sono scomparsi o sono rimasti nani. Acacie hanno preso un po’ di più.

Corro verso l’altro lato, per vedere la struttura 101, alla cui costruzione ho contribuito scavando, un luogo pensato per i casi irreparabili. Non riesco a trovarlo. I nostri aguzzini hanno tentato di nascondere qualcosa – hanno nel sangue questa cosa. Di tutto rimane solo un breve tunnel con le catene cimentate nel muro. Una turista tedesca dai capelli rossi si fa fare le foto con le mani infilate tra i grossi annelli di metallo. Inoltre quella parte dell’isola era attraversata da un canale di scolo dalla forma del tetto rovesciato. Mi sposto dall’altra parte del canale cercando di orientarmi. Stavo su un parapetto di pietra alto circa un metro e c’era qualcosa che non mi tornava. Voglio saltare, dimenticandomi dei miei sei decenni, e con la massa che del corpo radoppiata dai tempi di prigionia, casco giù. Inciampando ero caduto sui sassi appuntiti. L’isola rivendicava il proprio diritto su di me.
Per fortuna si era trovata della brava gente. In qualche modo abbiamo fermato l’emorargia – o si era fermata da sola – e rimango con le gambe sbucciate. Era arrivato il momento di andare, scendiamo verso il porticiolo. Volevo vedere quanto tempo sono rimasto svenuto. Era passata un’ora. In quel momento mi era diventato chiaro che non dovevo cercarlo. Era un’ora significativa, e credo che sia rimasta lì a scorrere all’infinito sotto qualche sasso.

A chi era venuti in mente di portarci lì? Vladimir Dedijer,  uno storico e patriota scrisse: “Nella discussione che ho avuto con lui (Con Stevan Krajacic, ministro degli interni croato ai tempi di Goli Otok) il 21 marzo 1982, mi disse: Ero in viaggio con Augustincic (noto scultore jugoslavo) in tutte le cave per estrazione di marmi cercando di trovare la qualità giusta e simile a quello di Carrara. Così siamo arrivati a Goli Otok a sud di Senj. Di lui ho parlato a Kardelj e a lui balenò l’idea di piazzare un campo di concentramento proprio lì.” (V. Dedijer: nuove fonti per la biografia di J.B. Tito, Rad, Beograd, 1984 pag. 465).
Era interessante notare i tentennamenti nella coscenza dei vertici jugoslavi. Ancora Dedijer: …”il nostro rappresentante diplomatico presso le Nazioni Unite mi rivelò: all’interno dell’UN stavamo lavorando da alcuni anni alla Carta dei Diritti Umani. Un giorno è arrivato a New York pubblico ministero Brana Jevremovic come rapprsentante della Jugoslavia per la Commissione dei diritti umani. Lui ha portato la direttiva di Kardelj che dobbiamo dare l’emendamento per un nuovo articolo della Carta dei Diritti Umani, quello secondo il quale ogni stato ha diritto di legalizzare i campi di concentramento. Questo emendamento diceva grosso modo: Ogni stato ha il diritto, nel caso di necessità, e nell’interesse della tutela dell’ordine e delle istituzioni, di imprigionare a tempo indeterminato con un procedimento abbreviato, i cittadini che minacciano l’integrita dello stato manipolati e asserviti ad una potenza straniera. Io – diceva il dimplomatico citato prima – mi sono opposto fortamente di codificare una proposta del genere, che in quel momento (dietro la minaccia dell’invasione sovietica ndt.) era un problema specificatamente jugoslavo; quindi ho informato il capo della nostra delegazione Dr. Alesa Bebler. Lui ha concordato con il mio punto di vista, e quindi ha fatto pressioni su Kardelj purchè si rinunci da una proposta tanto inopportuna. Kardelj ha accettato le obiezioni di Bebler e così ci siamo salvati dalla vergogna di essere il paese che propone l’apertura dei campi di concentramento nella lCarta dei Diritti Umani.” Quello di cui non si sà – non esiste. Questo è il credo dei nostri dirigenti ed è quello che gli ha permesso di dare le lezioni di etica al mondo per quarant’anni. La grande necessità di cui parlava il diplomatico è terminata, naturalmente, con un grande tanfo.**

*”Nuzda” tradotto necessità significa anche “bisogno” nel senso fisiologico di espellere escrementi.

http://www.geocities.com/titos_hawaii/

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