Home > General, Politika, Pop-Kultura, Teatro > Born in Yu

Born in Yu

November 5th, 2010

Riporto qui la traduzione di due articoli su uno spettacolo teatrale del regista bosniaco Dino Mustafic intitolato “Rodjen u YU” (Nato in  YU), incentrato sull’identità culturale jugoslava, sulla sua sopravvivenza malgrado l’ostinato revisionismo di una certa parte politica e sulla necessità di scrutare nel passato senza nostalgia per capire quali sono le prospettive per il futuro dei paesi post-jugoslavi al di là dei muri eretti dalle destre nazionaliste.

Perché non possiamo ricordare Jugoslavia?

Jugoslavia si è disgregata come l’entità politica ma a livello culturale vive ancora. E’ una dimostrazione che l’uccisione dell’identità jugoslava era una perdita di tempo in realtà? Ecco cosa si è concluso durante un incontro tenutosi a Belgrado…

Il regista Zelimir Zilnik, l’attrice Mirjana Karanovic e gli scrittori Ante Tomic, Miljenko Jergovic i Muharem Bazdulj hanno discusso durante un incontro pubblico sul tema della “jugoslavità” al “Centro per la decontaminazione culturale” a Belgrado il 27 ottobre scorso.

L’occasione per questo incontro era lo spettacolo teatrale “Nati in YU” di Dino Mustafic, di recente tenutosi per la prima volta al Teatro drammaturgico jugoslavo. Il dettaglio dell’evento più citato dai media era quando fu intonato l’inno jugoslavo “Hej sloveni” al che uno degli spettatori si alzò in piedi seguito dal resto del pubblico per la sua durata. Una delle attrici dello spettacolo era Mirjana Karanovic ha dichiarato per Deutshe Welle: “Inizialmente ero molto scettica sull’idea di fare questo spettacolo, ma poi dalla foga per spiegare i miei motivi mi sono commossa. Ho chiamato il regista per dirgli che non volevo accettare la mia parte, ma ho capito che dovevo farlo per fare i conti una volta per tutte con il passato. Mi sono resa conto quanto non solo io, ma tutti quelli che hanno vissuto in quel paese, ne parlino così poco, mentre quel poco che si dice è parte di un ricordo sentimentale sui vecchi tempi. Dall’altra parte c’è una connotazione molto negativa sul significato della Jugoslavia come la prigione dei popoli. In questo contesto essere dei jugo-nostalgici è una brutta cosa, qualcosa di cui vergognarsi…Nel concetto della Jugoslavia si è infilato di tutto, dalla politica ai prodotti della cultura pop”.

Lo scrittore Ante Tomic ha detto che erano dei bei tempi, ma sono andati per sempre e ora bisogna pensare alle questioni più contemporane, più importanti. “Avevo molti dubbi su questo tema anche se almeno per me non erano di natura politica. Ho 40 anni e ho passato la metà della mia vita in quel paese, l’altra metà senza, cercando di viverlo in modo attuale. Mi sento come un emigrato, questo non è più il posto dove vivo e temo di diventare come tutti gli emigranti, noioso con le proprie storie sul passato, in questo caso sulla Jugoslavia. A parte questo, oggi viviamo delle nuove sfide, il mondo è diventato inquietante e penso che ci sono cose più pressanti. Quando parliamo di questo mondo inquietante in cui è assente la solidarietà, in cui i lavoratori si trattano come i cani, è comunque utile l’esperienza jugoslava perché il socialismo se non altro ci insegnava che la solidarietà e la comunanza sono dei valori. Infatti, quando penso all’indietro, credo che quei 50 anni dell’esistenza del paese erano dei tempi in qualche modo eroici. Oggi ci siamo “degradati”, perdiamo sia la solidarietà, sia i valori come quello della comunanza” ha detto Tomic.

Secondo Miljenko Jergovic, il fatto che si sospende il diritto di ricordare è terrificante. “Jugoslavia come entità politica è scomparsa. Ma quello che erano le basi della Jugoslavia, cioè lo spazio di un’identità culturale e le sue esperienze storiche continuano a vivere, continuano a funzionare. Nel senso culturale Jugoslavia non solo non si è mai disgregata, ma non può farlo. Che cosa è rimasto? E’ rimasto per ciascuno quello che anche prima gli apparteneva nel senso spirituale, morale e molto meno materiale” osserva Jergovic.

fonte: http://danas.net.hr/kultura/page/2010/10/29/0173006.html

[Segue l’intervista con Dino Mustafic]

Mi ricordi cos’era Jugoslavia?

Intervista con il regista Dino Mustafic

Lo spettacolo “Nati in YU”, rappresentato per la premiere al Teatro drammatico jugoslavo, è nato sulla base delle storie dei suoi attori sulla Jugoslavia, il paese in cui sono nati. L’ideatore di questo spettacolo è Dino Mustafic, sarajevese, uno dei registi teatrali più in vista in Bosnia, accolto con entusiasmo a Zagabria, Rijeka, Ljubljana e Skopie…

A belgrado, prima di “Nati in YU”, ha diretto “Prima della pensione” al teatro “Bojan Stupica”, mentre al Atelje 212 ha presentato “Helvelova noc”, Dino Mustafic è direttore del festival internazionale del teatro MESS di Sarajevo e fondatore del “Nostro partito”.

E’ nato in Jugoslavia.

Sull’identità: “Lo spettacolo inizia con gli attori che dicono le proprie matricole, e finisce quando le ripetono, aggiungendo il proprio nome e cognome. Tra questi due punti ogni uno parla di sé, sullo sfondo di quello che si chiamava Jugoslavia, le storie su quello che ci succede mentre tutto sprofonda come l’Atlantide, come nello stesso spettacolo dice Mirjana Karanovic, quando sprofonda tutto quello che abbiamo amato, in cui abbiamo creduto, quando sprofonda il sistema che ci ha educati e le usanze con cui abbiamo convissuto. Non ci interessava avere dei veri proprositi storici, né dare delle spiegazioni su tutto quello che è successo, sarebbe impossibile. Per quello non ci sono più parole e non si sa più cosa dire. Ci interessava lo sguardo intimo sulla domanda ontologica che cosa siamo diventati oggi che l’identità “jugoslava” è diventata indesiderata, vista come un difetto, un errore di produzione. Ci occupiamo di questo nello spettacolo. Gli attori parlano in modo personale, su base delle esperienze, senza le posizione ideologiche o calcolate in qualsiasi modo, parlando dal cuore, dalle ferite, ma anche dalle oase dei bei momenti che ci sono rimasti nella mente. L’uomo sopravvive i peggiori traumi ricordando i bei momenti. Per questo è importante difendere le nostre memorie come degli spazi della propria libertà. Quando qualcuno revisiona la vostra storia, la vostra biografia, o la vuole cancellare, viola i vostri ricordi. Quindi si parla anche di questo, parlando dell’identità.”

Sui ricordi: “Con la prima granata caduta su Sarajevo, si capiva che l’argomento della forza è molto più forte delle nostre concezioni idealistiche e delle convinzioni con cui abbiamo vissuto fino ad allora. La consapevolezza che la violenza e le forze distruttive prevaricavano su tutte quelle costruttive, era la pillola più amara che ho dovuto ingoiare con la dissoluzione della Jugoslavia. Tutto il periodo dell’assedio l’ho passato a Sarajevo. Dal 1992 al 1995 ho finito gli studi di lettere e filosofia, continuando a frequentare anche l’Accademia di Arte Scenografica. Il mio primo spettacolo è andato in scena al “Kamerni Teatar 55”, nel dicembre del 1993, durante il secondo anno in cui Sarajevo era senza l’energia. Tutt’oggi sento quel freddo rimasto sotto la pelle: freddo in casa, freddo al teatro, freddo fuori, dappertutto terribilmente freddo. Avevo deciso di riadattare la novella “Il Muro” di Sartre perché c’erano molte analogie con quello che succedeva alle nostre vite. La soluzione scenografica era il muro di dieci metri che continuava a muoversi durante la rappresentazione, e l’unica possibilità per realizzarlo era recuperare del legno. Questo in quegli anni a Sarajevo era praticamente impossibile. Ci era venuto in mente che gli unici che potevano avere delle assi in quel momento erano le pompe funebri. Avevano accettato la nostra richiesta. Hanno dovuto smontare alcune bare per rimediare le assi che ci servivano per la scenografia. Sul volantino c’era scritto “Sponsor: Pompe funebri”. Penso che nessuno spettacolo ha mai avuto uno sponsor del genere. Il nostro “Muro” aveva ricevuto l’invito ad Avignone, ma non potevamo uscire da Sarajevo. Era così ai tempi. Vivevamo una vita piena di immagini della morte, ma anche di tantissimi concerti, mostre, spettacoli – la cultura aveva la stessa importanza dei viveri, era importante per la sopravivenza. Per questo la gente che faceva cultura sotto assedio oggi ha un certo sentimento verso quei tempi: eravamo tutti buoni, con il senso di solidarietà, anche se di soldi non ce n’erano, spesso facevamo gli spettacolo per un pacchetto di sigarette o un chilo di farina. In generale c’era l’empatia di uno verso l’altro. Purtroppo, già con i primi giorni di pace, con le prime spartizioni tra le varie posizioni e i bottini di guerra, tutto ciò è scomparso. Nello stesso periodo ho fatto anche “Il rinoceronte” di Jonesk, e “A piedi” di Mrozek, così questo mio esordio durante l’assedio di Sarajevo ha creato i presupposti per alcuni principi da regista: la regia inizia con la scelta di un tema. Da lì il bisogno che il teatro sia d’impegno, che ponga i quesiti, che crei dei dubbi. “

Sulla Jugoslavia: “Penso che oggi sono come sono, che il mio carattere si sia formato in un determinato modo, proprio grazie ad alcune eredità jugoslave: la bellezza delle differenze, la convivenza, il credo nel progresso e in certi ideali. Nell’ultimo spettacolo c’è una scena che si chiama EU. E’ paradossale, ma un giorno che entreremo in Europa, potremo portarci dentro la convivenza che si era creata in Jugoslavia secondo la logica che oggi dichiara l’Unione Europea. Oggi tutti quanti si presentano come pro-europei, ma noi quel opzione l’avevamo prima della guerra con le riforme di Ante Markovic, ma abbiamo scelto la fame, la povertà e la guerra. Non l’Europa. Pensate dove sarebbe oggi quella repubblica federativa rispetto ad altri paesi che in quei tempi erano molto meno sviluppati della Jugoslavia, mentre oggi ci sono a momenti irrangiungibili come Bulgaria, Ungheria, per non elencare quello che tutti sanno”.

Sull’esame di coscienza: “Non c’è nulla di strano se Jugoslavia ritorni ad essere un tema interessante. Ritorniamo ai suoi tempi perché siamo in crisi con quegli attuali. Sentiamo che dobbiamo tornare nel passato per interrogarlo, poiché non abbiamo avuto modo di farci i conti. Io in tutto ciò vedo un naturale legame tra gli elementi che sono stati violentemente recisi tra loro. Puoi erigere le frontiere amministrative, ma rimane il fatto che i registi di Sarajevo lavorano a Belgrado con i scenografi di Zagabria, o il fatto che tra un mese partirà a Sarajevo MESS al quale ci saranno le compagnie teatrali di Belgrado, Zagabria, Ljubljana, Skopie – questa è la rivincita degli spazi culturali!”

Sull’ordinamento politico: Le oligarchie politiche che guidano i paesi nati dalla Jugoslavia hanno ragione ad avere dei complessi di inferiorità rispetto al sistema di allora. Nessuno può negare le sicurezze di quel sistema, l’ottimismo, il senso di dignità, la libertà di circolazione. Non viviamo in un sistema democratico come ci dicono, ma partitocartico. I partiti sono diventati i proprietari delle nostre vite, per questo i neo-stati devono avere i complessi rispetto alla Jugoslavia. Ci sono persone che erano degli avversari politici del vecchio sistema, ma che oggi sostengono che era meglio di com’è oggi. Gli stati nuovi non hanno molto di cui andare fieri: sono i primi a livello di corruzione, hanno una pessima istruzione e le infrastrutture a pezzi, le banche svendute e migliaia di disoccupati. Sono dei paesi irrilevanti. Mentre sappiamo com’era Jugoslavia.”

Sul legame: “Penso che la guerra aveva come uno degli obiettivi la distruzione dell’identità culturale jugoslava, ma siamo riusciti difenderla e conservarla. La cultura era più coraggiosa della politica. Ancora oggi volano le parole pesanti tra gli stati nuovi, ma il mondo della cultura rimane in prima linea a curare le ferite. Cultura è per la propria natura portatrice di integrità. E’ autonoma e resiste alla politicizzazione. Ma questo non significa che la cultura non sia anche una questione politica – ricordiamo bene i tempi in cui questa era strumentalizzata e utilizzata come arma di soggiogazione. Per questo ho il timore, una sorta di inquietudine metafisica, quando vedo che nei piccoli paesi sottosviluppati domina un’aspetto “commerciale” della cultura: per alcuni concerti si investono tantissimi soldi, mentre non si investe niente nei musei e nelle istituzioni che formano il substrato del popolo conservando la sua memoria. O quando attraverso una matrice culturale si infiltrano tra la gente elementi ideologici, come la Corida di Cevljanovic in Bosnia o il Festival di Guca in Serbia, diventando dei paradigmi di identitarismo e della tradizione. Questo è pericoloso.”

Sul rischio: “Mi dicono che i “jugofobici” si arrabbieranno. Io non sono ne jugonostalgico ne jugofobico, e men che meno lo è questo spettacolo. Certo non si può dire che in quel paese andava tutto bene, ma ancora più stupido è sostenere che non andava bene niente e che per mezzo secolo abbiamo vissuto nell’illusione. Mi dicono che le persone vedranno nello spettacolo la vecchia ideologia. Non saprei che dirgli su questo. Penso che nessuno ha il diritto di impedire a qualcuno di toccare un tema, come di impedire di esprimere un pensiero. Ma nonostante il rischio di cui mi parlano, credo comunque che questo spettacolo saprà attirare il pubblico perché è molto personale, intimista, basato sulle esperienze, perché tratta i temi di uno spaccato storico in modo diverso, al di là dei canoni ufficiali. In questo modo l’arte coltiva, introduce un reale dialogo tra le persone cercando di superare quello attuale, monodirezionale.”

Sulla convivenza: “Anche in Croazia si trovano degli spettacoli con temi simili, cito solo Turbofolk di Oliver Frljic, o Generacija 91-95 di Borut Separovic, mentre a Sarajevo ne sono stati realizzati anche alcuni con un taglio più documentaristico. Ovunque esiste il bisogno di utilizzare teatro per parlare dei tabù. Il teatro perde l’anima se non è sovversivo, esso deve spingere verso i cambiamenti, deve provocare dei movimenti tettonici. Io credo sinceramente che il mondo della cultura avrà un ruolo importante nei cambiamenti. Ho visto il film “Sisanje”, e di quel genere di cinema che abbiamo bisogno. O Grbavica di Jasmila Zbanic. Questi film sono importanti. Da quello possiamo vedere cosa abbiamo fatto gli uno agli altri e perché ci dobbiamo vergognare e scusare. Per questo penso che è estremamente importante attraversare questo processo di confronto perché solo così si può arrivare alla pacificazione.”

Destra/Sinistra: “A Sarajevo il concerto di Bora Corba e Prljavo Kazaliste? No, questo sarebbe impossibile! Sarajevo non ha permesso a Thompson di suonare, ma non perché quello che fa non sarebbe tollerato, ma per non dare spazio a quelli che si sono compromessi rendendosi complici di quello di cui oggi bisogna vergognarsi. Penso che ai tempi hanno avuto abbastanza spazi, mentre noi eravamo un’esigua minoranza. Alla fine si è rivelato che sono loro che sono usciti perdenti dalla guerra: io oggi lavoro a Belgrado, Rijeka, Zagabria, Ljubljana, Skopie, mentre loro dove sono? Mi chiamano da tutte le parti in nella regione, mentre loro no. Che si facciano delle domande allora.”

Sul partito: “Le mie posizioni artistiche e il modo di lavorare sono compatibili con le mie posizione politiche. “Nasa stranka” è nata come l’espressione di una dissidenza politica dei molti attivisti delle organizzazioni non governative e di una parte della comunità artistica e accademica. Si parte dal fatto che Bosnia ed Erzegovina è uno stato fuori discussione, ma che gli accordi di Dayton non possono essere un ostacolo per la gente che vuole mettersi d’accordo e non solo trattare. Ci teniamo che venga restituito allo spirito bosniaco quello che gli appartiene: dialogo, compromesso tra le parti, rispetto dell’altro, qualcosa che sapevamo vivere, che abbiamo imparato dalle nostre famiglie, e che ci è stato strappato. Questi valori vanno realizzati, i valori per i quali la Bosnia era famosa e amata per questo – molti ci venivano perché gli faceva piacere al di là dell’identità alla quale apparteneva. Oggi questo è stato distrutto persino come l’idea, e per questa idea vale la pena di lottare.”

“Vreme” 14.Oktobar 2010.

http://dovla.net/2010/10/podseti-me-sta-to-bese-jugoslavija/

Comments are closed.