Maresciallo Tito
Oggi su Facebook mi hanno mandato una foto di Tito per l’anniversario della sua morte, avvenuta il 4 maggio 1980. Ecco il commento che gli ho lasciato.
Oggi su Facebook mi hanno mandato una foto di Tito per l’anniversario della sua morte, avvenuta il 4 maggio 1980. Ecco il commento che gli ho lasciato.
Mi è capitato poche volte di mettere la musica yu-rock dal vivo, durante qualche festa o concerto. Non essendo un dj, in quelle rare occasioni ho sempre fatto dei frullati piuttosto bizzarri in cui mischiavo, con poco criterio, il vecchio e il nuovo, l’elettronica e il rock. Mi incuriosisce comunque vedere le reazioni, dal momento che la maggioranza degli ascoltatori di solito si aspetta qualcosa di molto “balcanico”, alla Bregovic o Gogol Bordello, per intenderci. Penso che questi esempi non rispecchino bene quello che era il rock jugoslavo, cristallizzando l’idea di un variegato scenario musicale, ad un immagine esclusivamente folkloristica dei rural-rockers di un paese immaginario. Non per affermare che non ci sono queste contaminazioni, a volte volutamente kitsch e grottesche come nel caso di Rambo Amadeus, in altri casi più prossime alla world music dei Leb i Sol, ma perché sono esistite molte altre sonorità e correnti, originali o meno, ma che si scostavano da qualsiasi eredità tradizionale.
Qualche sera, durante un’aperitivo, ho messo la musica al centro sociale Barattolo e con sorpresa l’unica richiesta di delucidazioni su un gruppo mi è arrivata da un ragazzo che ha sentito “Odbrana” degli Idoli, pezzo new wave del 1982, dalle tinte synth-pop e ritmo in levare. Nulla a che fare con il sound orientaleggiante e cacciarone di cui parlavo prima, se non per il concetto e l’estetica dell’album, che utilizza in chiave pop alcune immagini dell’arte religiosa bizzantina. Ecco il brano:
http://www.youtube.com/watch?v=w4ATm2uXWcA
Poco fa leggevo un articolo sull’Osservatorio Balcani che parlava di un convegno economico di cooperazione regionale tra le varie repubbliche post-jugoslave, in un ottica di superamento dei dissidi, delle divisioni ideologiche e di creazione di un mercato comune, anche in relazione all’UE e agli organismi internazionali. L’articolo parte da un neologismo, coniato da un giornalista inglese di The Economist, ovvero “jugosfera”, interpretandolo in questo modo:
“Il punto di partenza della riflessione di Judah è naturalmente quello economico. Egli rileva come nell’area si stia sempre più ristrutturando un mercato comune, considerato come unico in primo luogo dagli attori economici che vi agiscono. Le pagine dell’articolo si spingono tuttavia anche oltre, rivalutando le comunanze di carattere sociale e culturale delle popolazioni della regione, sottolineando quanto siano ancora forti le corrispondenze della vita quotidiana che vanno dalla lingua, alla gastronomia, sino alla musica.”
Non mi sembra che il giornalista in questione abbia inventato chissà cosa, forse ha rotto il tabù di utilizzare il prefisso “jugo”, che rimanda alla federazione demonizzata per anni dalle correnti politiche che hanno portato alla sua disgregazione, piuttosto mi sembra un’evoluzione naturale delle cose in uno spazio pieno di denominatori comuni di tipo storico, culturale, linguistico e infine anche politico se non vogliamo ignorare i 50 anni di jugo-socialismo, comunque lo si voglia giudicare. Certo a fare notizia ci arrivano per primi gli economisti, i grandi gruppi aziendali, i manager, che con il loro pragmatismo, i loro interessi e le loro strategie di mercato hanno colto la palla al balzo facendo proprio il termine “jugosfera”. Con o senza UE, bisogna dimostrarsi competitivi e non farsi completamente assoggettare dai grandi gruppi multinazionali senza avere la voce in capitolo, questo pare essere la logica del convegno.
Tuttavia la “jugosfera”, il termine che trovo interessante e che a mio avviso rispecchia una realtà, non si può riferire soltanto alla sfera economica come infatti si accenna nell’articolo dell’Osservatorio. Penso che una “jugosfera” viene quotidianamente tessuta da milioni di persone con il loro bisogno di spostarsi, di fare commerci, di fare cultura, di tutelare le proprie relazioni personali, di uscire dai ghetti e superare i muri e le paura. “Jugosfera” è piuttosto un’evoluzione naturale delle cose, per la buona pace di tutti coloro che si agitano e sbraitano al solo sentir nominare una parola che inizia con “jugo”.
Infine tra i commenti a questo articolo trovo anche quello di un fotografo amatoriale veneto che presenta così il suo reportage fotografico, attribuendogli casualmente lo stesso nome:
“Comunque la si rigiri tra le mani questa sfera è un poliedro composto da infinite facce o da un’unica faccia che sembra ripetersi sempre uguale a se stessa. La sua antropizzazione è un vortice. L’indagine è inevitabile, pare imposta. Non esistono anticorpi. C’era una sfera e probabilmente c’è ancora.”
E’ di un paio di settimane fa la notizia sul ripristino della linea ferroviaria Belgrado-Sarajevo. Per quanto abbia avuto un’eco modesta, è sicuramente un fatto storico. O forse no? Se non è un fatto storico è senza dubbio una svolta nella percezione da ambedue i lati, un altro muro che cade, un nodo che si scioglie nelle mappe mentali della gente, una svolta psico-geografica. Per 19 anni sono state due città che non esistevano l’una per l’altra, e una volta cessati i conflitti armati è rimasta la paura, la diffidenza, i rancori, il vuoto. Certo non si può celebrare la rinascita del mito di Unità e Fratellanza, dato che sulla prima corsa c’erano pochi passeggeri di cui la metà erano turisti stranieri, ma il fatto che un 19enne cresciuto nella “balcanizzazione” potrà prendere il treno e andare a farsi il Capo d’Anno a Sarajevo è molto significativo.
Nelle interviste che ho sentito si distinguono l’entusiasmo e la nostalgia da un lato, e la forzata indifferenza dall’altro e questo, è dimostrattivo del fatto che la cosa viene vissuta con una certa carica emotiva. Per quanto riguarda gli scettici” o gli “indifferenti” quando si parla delle aperture verso “l’altro”, non si può non considerare che una posizione del genere sia una diffesa inconscia verso l’idea scottante che ci si avvia di nuovo verso uno spazio unificato, completamente diverso da com’era nel passato, ma che impone di nuovo il fatto che le persone, le merci, i capitali (quindi anche la cultura) devono fluire liberamente tra le diverse repubbliche. Un’idea naturalmente che nella concezione comune fa sprofondare nel nonsense più totale le motivazioni etno-politiche, ideologiche e religiose della guerra civile. Rimette in discussione molte cose.
Una volta era la linea ferroviaria più veloce del paese, in particolare fu potenziata in occasione delle Olimpiadi del 1984, ma purtroppo oggi ci mette più tempo che trent’anni fa, date le condizioni precarie dell’infrastruttura, rappezzata alla meno peggio. Comunque sia non si può che salutare positivamente questo evento. Il costo del biglietto è di 21 euro andata e ritorno, il treno parte alle 8.15 da Belgrado per arrivare (teoricamente) verso le 17 a Sarajevo.
Guarda il servizio di Al Jazeera
Sarajevo, i ricordi di cristallo,
Sarajevo, di fango e di neve,
toglimi la brina dagli occhi e dalla fronte,
esci da me, esci da me.
Lascia gli occhi di vedere ancora questa volta,
lascia le orecchie di sentire ancora questa volta,
Sarajevo…
(EKV – Sarajevo – S vetrom uz lice 1986)
Segnalo l’articolo di Limes on-line, che parla dei legami tra la tifoseria serba e la destra clero-fascista, in cui viene citato un articolo di Balkan Rock sul fenomeno turbo-folk. Infatti in seguito ai fatti gravi accaduti a Belgrado negli ultimi tempi, come l’omicidio a freddo di un tifoso francese e l’annullamento del Gay Pride, gli ultras emergono non tanto come una sub-cultura identitaria e violenta, quanto come probabili agenti provocatori al servizio di forze politiche anti-europeiste e probabilmente filo-putiniane, in un momento in cui la società serba si sta liberando dalle pesanti eredità dell’era Milosevic e le nuove generazioni stanno gradualmente neutralizzando il nazionalismo.
Verso il 1987 esce per la Radio Televisione Serba un serial intitolato “Bolji Zivot” (La vita migliore). Seguiva le vicende di una famiglia tipo belgradese, con personaggi rappresentativi della picola borghesia jugoslava, con i loro problemi, le aspirazioni, i conflitti generazionali tra i giovani e i vecchi, il loro rapporto con le classi dirigenti o quelle subalterne. Non mancavano i riferimenti alla situazione sociale di allora, meno a quella più strettamente politica, considerando l’anno cruciale per l’ascesa dei nazionalisti. Lui, il capo famiglia, di umili origini contadine è un impiegato, dal carattere burbero ma bonario, nostalgico dei “valori di una volta”, lei insegnante in un liceo, intellettuale mancata e i loro tre figli: il primogenito serioso e concentrato sulla carriera, la secondogenita un po’ più trendy e il più giovane ribelle e strafottente. La serie andò in onda fino al 1991 con 87 episodi. Non mi vengono in mente corrispettivi, se non “Un posto al sole”, che tuttavia mi sembra terribilmente artificioso e ottuso nella sua rappresentazione di un’Italia di cartapesta, naturalmente parlo da uno “di parte” in questo momento, quindi “Bolji Zivot” malgrado fosse un prodotto televiso degli anni ’80 fatto per le masse, mi sembra abbia avuto anche qualche qualità, oltre a diversi attori che dopo sarebbero diventati famosi.