Cirkus Columbia
Un altro film sulla guerra. “Che palle” diranno in molti. Parlando con la gente o curiosando sui forum, si nota che c’è una certa insofferenza verso i registi che affrontano questo tema. Tra le diverse fasce di spettatori ci sono anche quelli che li reputano in malafede, oppure servili verso le scelte dei produttori che ritengono sia un tema richiesto da parte dei distributori esteri. Questo nel sentire comune genera un disagio in cui ci si sente relegati all’oggetto di studio in quanto appartenenti ad una realtà in cui si consumò la pià attroce guerra sul suolo europeo dalla Seconda guerra mondiale. Un fastidio in parte comprensibile ma spesso stimolato dalle questioni irrisolte del conflitto che ancora tormentano le coscienze delle persone. Certo ci sono stati diversi film con una visione parziale o non propriamente in grado di affrontare la questione nella sua complessità, indipendentemente dalle versioni “ufficiali”. Al di là di questo, credo che esista ancora la necessità di spiegare la disgregazione di quel paese, altrimenti non si potrà mai comprendere la realtà attuale, schiacciata da anni tra revisionismi e volgate neo-tradizionaliste da un lato, e filo-occidentalismo complessato dall’altro.
E’ normale, penso, che il cinema cerchi ancora di interrogarsi sulle dinamiche socio-culturali, condizionamenti geo-politici, cause e concause economiche, e su come questi fattori hanno stravolo l’intimità delle persone, le relazioni all’interno delle comunità nei contesti provinciali, il vissuto soggettivo e le conseguenze psicologiche. Ecco che proprio quest’ultimo aspetto è uno dei temi principali dell’ultimo film di Danis Tanovic, regista del celebre “No Man’s Land”. E’ una storia ambientata nella profonda provincia erzegovese in un paese in cui la vita sembrava scorresse tranquilla e monotona fino al 1991. Lui un emigrante, il tipico gasterbaiter jugoslavo, che si è fatto strada a gomitate e con molte faticihe, figlio di un ufficiale ustascia, la cui famiglia ha perso le proprie fortune con l’avvento del comunismo. Dopo anni di stenti finalmente la fortuna gli sorride, nella sua interpretazione superstiziosa, grazie al gatto che ha trovato in un bidone della spazzatura con cui instaura un rapporto morboso. Una volta fatti i soldi, sposa una donna giovane e disperata, succube di un padre-padrone molesto, quindi divorato dalla nostalgia e dal desiderio di rivincita torna al proprio paesino in un momento che reputa propizio, senza rendersi conto della catastrofe che incombe. Tornato, non esita a buttare fuori dalla sua ex-proprietà, resa con metodi poco chiari grazie alla nuova giunta, la sua ex fidanzata abbandonata incinta vent’anni prima. La povera donna conduce un’esistenza modesta con il figlio godendo della protezione e dell’amicizia di un ufficiale dell’esercito jugoslavo. Un’uomo in buona fede che fino all’ultimo crede nell’integrità del paese e nei valori acquisiti in gioventù, cioè fino a quando non scopre le trame torbide degli alti ufficiali e delle spartizioni in seno all’esercito.
Questo sono solo alcuni cenni sulla trama di un bel film, sentimentale, dalla narrazione semplice e dalla convincente psicologia dei personaggi che rispecchiano bene quella mentalità della provincia bosniaca ed erzegovese, divisa tra un antica furbizia contadina e l’ingenuità bonaria. Rendono bene gli archetipi della società jugoslava dell’ultimo periodo: gastarbeiter ambizioso, ufficiale dell’esercito dai saldi principi oppure quello corrotto e doppiogiochista, i neo-nazionalisti che riscoprono un quasi tribalismo identitario, gli appartenenti alla classe media decaduta che non hanno fatto in tempo a imbracciare una bandiera rimanendo vulnerabili. Ottimi gli interpreti, tra cui i veterani del cinema jugoslavo Miki Manojlovic e Mira Furlan, tanto che si nota la differenza nella bravura tra i protagonisti e coprotagonisti. Un film da non perdere, uscito anche nelle sale italiane.