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Tito per la seconda volta tra i serbi

July 4th, 2009

Autunno 1994. Una delle piazze centrali di Belgrado. Arriva una vecchia mercedes nera. La città è tetra, non tanto per la sua architettura a metà strada tra lo stile mittel europeo e quello real-socialista, ma per il clima che si respira: siamo a metà degli anni novanta e la guerra non è ancora finita, l’embargo ha fermato tutto tranne il contrabbando, i profughi arrivano dalle Krajine e dalla Bosnia mentre imperversa un diffuso senso di angoscia e isolamento. Dopo un attimo di esitazione si apre la portiera posteriore della mercedes e lui scende in divisa da maresciallo, quella delle grandi occasioni, cappotto sulle spalle, occhiali scuri, medaglie e riconoscenze sulla giacca. Si proprio lui, il compagno Tito è tornato dall’aldilà. Ne ha sentite di tutti i colori là sù e ha deciso di accertarsi di persona, di capire che cosa sia andato storto e dove ha sbagliato se l’Unità e Fratellanza sono andate a farsi benedire dopo appena dieci anni dalla sua scomparsa. Dopo essersi congedato dal suo autista grasso e dall’aria tonta, Tito si avventura tra le vie di Belgrado per incontrare i suoi fratelli serbi e cercare le risposte.

Così inizia  uno degli innumerevoli film di Zelimir Zilnik, ne il migliore ne il più celebre, ma l’ultimo che ho visto e che a modo suo ho trovato molto divertente. Nato in un campo di concentramento vicino Niš nel 1942, rimane presto orfano, trapiantato a Novi Sad ai tempi dell’università, Žilnik è uno dei fondatori dell’Onda Nera, una corrente del cinema jugoslavo che ha rappresentato una straordinaria novità  nel modo di girare, nei temi affrontati, negli intenti e nei modelli estetici non solo nell’Est europeo. La critica da sinistra del socialismo jugoslavo, la satira feroce, il rapporto tra generi e gli aspetti della sessualità ricoperti da tabù, viaggi nell’emarginazione, nel nichilismo, nella corruzione – tutto quello che per la retorica di un regime era la sua antitesi. Malgrado le reazioni, l’Onda Nera resistette per quasi un decennio (all’incirca dal 1963 al 1973) suscitando grande interesse nei festival del cinema europei e l’odio e lo sconcerto negli apparati di stato jugoslavo, ma anche qualche cauta complicità, che se non altro ritardò la sua fine. Più di trenta film furono censurati, o meglio occultati e chiusi in un luogo chiamato “il bunker” dove senza processo ne alcuna motivazione ufficiale vennero fatti sparire. Solo alcuni furono sottoposti al processo, che a quanto pare le autorità poi ritennero troppo scomodo e preferirono altre vie per far sparire questa “banda di disfattisti”. Žilnik subì uno dei processi e si difese tenacemente accusando l’accusa di essere stalinista e di voler distruggere l’immagine della Jugoslavia come la “terza via” in cui si gode di una certa libertà di espressione. Dopo processi, persecuzioni e censure il movimento fu sciolto all’inizio degli anni settanta e i suoi protagonisti dovettero andare altrove o cambiare il mestiere. In seguito Zilnik si dedicò quasi esclusivamente ai documentari o ai quasi-documentari come “Tito per la seconda volta tra i serbi”. Quest’ultimo c’entra relativamente con quello che fu l’Onda Nera, ma avendolo visto di recente, coglievo l’occasione per parlarne anche se l’argomento meriterebbe un’analisi lunga e approfondita.
Tornando al quasi documentario, in cui l’unica messa in scena è Tito che torna dall’aldilà, spiccano subito alcuni aspetti tra la folla di curiosi di cui alcuni non esitano a diventare i protagonisti attivi del film tra battute, domande e spiegazioni lapidarie che forniscono all’ignaro padre della defunta nazione, temporaneamente resuscitato. Ci sono i pensionati nostalgici ma un po’ incazzati che si lamentano dicendo “che abbiamo sprecato troppe lacrime invano quando sei morto!”; i nazionalisti beffardi che comunque prendono di buon grado  le domande ingenue del maresciallo, i rom con il loro eterno buon umore –  una volta i suoi più sfegatati sostenitori, i giovani convinti che il comunismo è “il male”, i sostenitori delle teorie del complotto universale che gli dicono “tu non sei il vero Tito, quello è morto durante la Seconda Guerra Mondiale” ecc. ecc. Poi ci sono le parti meno umoristiche che parlano più dell’attualità che comunque pesa e si fa sentire dal sottofondo: emerge dalle facce, dagli edifici, dalle strade, dalla tetraggine predominante; e poi i profughi giunti a Belgrado di recente che si arrangiano per sopravvivere, i giovani reduci dal fronte, gli svitati testimoni che la Serbia negli anni novanta era uno dei più grandi consumatori d’Europa di psico-farmaci. E avanti così emergono gli umori, le opinioni comuni, lo stato d’animo e le retrospettive delle persone comuni raccolte direttamente sulle strade durante quegli anni, ne emerge un quadro interessante sui tempi di Milosević.

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